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Il ferro, un minerale essenziale per la sopravvivenza

Il ferro è un minerale essenziale per la sopravvivenza dell’organismo: serve per il trasporto dell’ossigeno nel sangue, per tenerlo depositato nei muscoli, per la replicazione cellulare e per costruire la struttura di organi e tessuti.

Il nostro organismo non è in grado di produrlo, infatti, il ferro presente nell’organismo deriva dall’alimentazione: se seguiamo una dieta varia e bilanciata i livelli di questo minerale sono adeguati. Un bilanciamento che va mantenuto perché il ferro viene eliminato attraverso la sudorazione, le urine, le feci, il ciclo mestruale e l’allattamento. Proprio per questo motivo le donne e gli sportivi possono essere più soggetti a carenze di ferro.

La Dott.ssa Giulia Temponi, biologa nutrizionista in Imbio, ci spiega qual sono gli alimenti più ricchi di questo minerale e come consumarli per assimilarlo meglio.

Differenza tra ferro di origine vegetale e animale

Una differenza importante che riguarda il ferro è relativa alle due forme sotto le quali si presenta nelle fonti alimentari di origine animale e in quelle di origine vegetale.

Nelle fonti di origine animale si trova il ferro eme o emico, che viene assorbito più rapidamente e facilmente, mentre nelle fonti alimentari di origine vegetale il ferro presente è chiamato ferro non eme o non emico, ed è meno facilmente assimilabile dal nostro organismo.

Una differenza importante fra questi due tipi di ferro è legata al diverso meccanismo di assimilazione. Il ferro eme o emico è assorbito da siti altamente specifici presenti nella mucosa intestinale e non è influenzato dalla presenza di sostanze che ne inibiscono o promuovono l’assimilazione. Invece, l’assorbimento del ferro da origine vegetale può essere favorito o inibito da determinati alimenti o sostanze.

Quali sono gli alimenti più ricchi di ferro?

Una dieta vegetariana o vegana non implica carenze di ferro, spiega la dottoressa Temponi, perché il ferro è presente in moltissimi alimenti di origine vegetale, come ad esempio:

  • Vegetali a foglia verde scuro: cavolo riccio, crescione, cavoletti di Bruxelles, spinaci, radicchio verde
  • Avocado
  • Legumi: soia, fagioli, lenticchie, ceci
  • Cereali integrali: in particolare l’avena
  • Funghi secchi
  • Frutta secca: mandorle, pistacchi, anacardi
  • Frutta disidratata: fichi secchi
  • Alghe

In generale è quindi possibile affermare senza timore che gli alimenti animali non sono i soli ricchi di ferro, in quanto anche il regno vegetale è in grado di garantire un abbondante introito di questo prezioso minerale.

Mentre riguardo alle fonti di ferro origine animale, tra i più ricchi troviamo:

  • fegato
  • manzo
  • prosciutto crudo
  • bresaola
  • cervo
  • agnello
  • pesce
  • molluschi e crostacei

Come assimilare meglio il ferro da fonti vegetali

Nel caso del ferro presente negli alimenti di origine vegetale, va prestata particolare attenzione a come lo si assume: alcune sostanze, infatti, possono diminuirne o addirittura inibirne l’efficacia.

L’assorbimento del ferro da alimenti vegetali, viene favorito dalla vitamina C e dall’acido citrico. La prima è presente in frutta e verdura come agrumi, kiwi, peperoni, pomodori, peperoncino, mentre il secondo si trova soprattutto nel limone. Per questo è ottimale consumare legumi o verdure a foglia verde con un po’ di limone, dei pomodori o del peperoncino, oppure bere ai pasti una spremuta d’arancia o dell’acqua con del limone spremuto.

Un altro metodo suggerito dalla dottoressa riguarda il metodo di cottura di legumi e cereali integrali: se vengono cotti con del limone si favorisce l’assorbimento del ferro in essi contenuto.

Ci sono invece degli alimenti che possono limitare l’assorbimento del ferro non eme e sono quegli alimenti che contengono calcio e tannini, come latte, latticini, caffè e tè. Per questo sarebbe bene consumare questi alimenti lontano da cibi contenenti ferro di origine vegetale.

Carenza di ferro: i sintomi e le analisi consigliate

I sintomi di una carenza di ferro di solito sono piuttosto evidenti: spossatezza, stanchezza, affaticamento e fiato corto sono tra i principali sintomi di una carenza di ferro e in particolare dell’anemia sideropenica. Oltre a donne in età fertile e sportivi, ad essere soggetti a carenze di ferro sono anche coloro che hanno disturbi intestinali di mal assorbimento o intolleranze alimentari.

Per diagnosticare una carenza di ferro, però, non ci si dovrebbe limitare a controllarne i valori nel sangue: lepcidina, ad esempio, è il principale ormone regolatore dei livelli di ferro intra cellulare e circolatorio.

L’epcidina: l’ormone che regola il metabolismo del ferro

La funzione principale dell’epcidina è quella di regolare la ferroportina (FNP), legandosi ad essa e determinandone l’endocitosi e la conseguente degradazione. L’anemia con carenza di ferro funzionale, ad esempio, è caratterizzata da elevati livelli di epcidina nel sangue che causano accumulo di ferro nelle cellule di deposito e poca disponibilità per la produzione di globuli rossi che oltre a svolgere importanti funzioni, trasportano l’ossigeno ad organi e muscoli.

L’analisi dei livelli di epcidina, abbinata a sideremia, ferritinemia, transferrinemia risulta particolarmente utile nelle indagini per anemia, carenza di ferro, emocromatosi e malattie da sovraccarico di ferro. Quindi oltre a valutare il livello di ferro presente nel sangue, è utile capire se il rapporto tra il ferro circolante e quello di riserva è regolato correttamente.

I livelli di epcidina si possono valutare grazie ad uno specifico esame ematico che abbiamo introdotto fra i nostri esami di laboratorio ImbioLab. 

Dott.ssa Giulia Temponi
Biologo nutrizionista

Riferimenti: Ferro, Anemia, Epcidina
Redattore: Dott.ssa Giulia Temponi


August 17, 2015 Newsletter

Per molti anni il glutine è stato correlato sul piano patologico in particolare ad una sola malattia, denominata malattia celiaca, caratterizzata da sintomi addominali quali meteorismo, diarrea, flatulenza, distensione addominale, ma anche extraintestinali, quali calo di peso, anemia, alopecia ed associata a tiroiditi, diabete, malattie autoimmuni. Pertanto, in assenza di una chiara diagnosi di malattia celiaca, che si esegue attraverso la determinazione nel siero della presenza degli anticorpi anti-transglutaminasi tissutale e la dimostrazione di una alterata morfologia dei villi intestinali, non era necessario proibire il consumo di prodotti alimentari privi di glutine.

Tuttavia, sembra che le cose non stiano proprio in questi termini, in quanto negli ultimi anni è stata segnalata la possibilità che anche soggetti non affetti da malattia celiaca possano subire effetti tossici dal glutine. In poche parole, una vera e propria intolleranza al glutine, diversa dalla Malattia Celiaca, verosimilmente definibile più correttamente “ipersensibilità al glutine” o Gluten Sensitivity (GS), come è chiamata dagli anglosassoni.

Malattia Celiaca e Gluten Sensitivity non solo sono diverse sul piano genetico, ma anche relativamente al coinvolgimento del sistema immunitario. In particolare, al contrario della malattia celiaca, la Gluten Sensitivity non si associa a lesioni intestinali, non stimola reazioni abnormi del sistema immunitario, non si associa ad alterazioni rilevabili degli altri organi.

Che la gliadina contenesse una porzione potenzialmente tossica nella sua molecola è un punto noto da diverso tempo. Tuttavia, la maggior parte delle persone presenta una tolleranza nei confronti di tale proteina, attraverso un meccanismo di protezione che previene l’attivazione del sistema immunitario e mette al riparo le cellule intestinali, e quindi i villi. Il paziente con malattia celiaca, invece, reagisce nei confronti della gliadina attivando il sistema immunitario, non essendo in grado di tollerarla e, quindi, sviluppa le lesioni intestinali tipiche ed i sintomi di questa malattia.

In soggetti con gluten sensitivity sono state rilevate alcune alterazioni quali un leggero aumento dei linfociti intraepiteliali (di severità marcatamente inferiore rispetto ai celiaci) ma in assenza delle alterazioni dei villi, che appaiono assolutamente normali; in alcuni risultano positivi gli anticorpi anti-gliadina di classe IgG, ma risultano negativi altri markers sierologici di malattia celiaca, quali gli anticorpi anti-transglutaminasi e gli anticorpi anti-endomisio.

Il quadro clinico di questa condizione è estremamente variegato, potendo spaziare da sintomi addominali, quali meteorismo con distensione addominale, alterazioni dell’alvo, ad esempio  diarrea, calo di peso, dolori addominali sia crampiformi che subcontinui, associati a sintomi extraintestinali, quali cefalea, difficoltà alla concentrazione, stanchezza, irritabilità. Il quadro clinico di tale condizione spesso si confonde con quello della sindrome dell’intestino irritabile, con la quale condivide alcuni aspetti caratteristici della attività motoria intestinale.

Articolo scritto dal Prof. Di Stefano,OLYMPUS DIGITAL CAMERA Dirigente Medico presso la Clinica Medica 1 della Fondazione IRCCS Policlinico “S.Matteo” di Pavia. I principali interessi di ricerca sono rappresentati dagli aspetti clinici, fisiopatologici e terapeutici dei disordini funzionali dell’apparato gastrointestinale, in particolare la sindrome dell’intestino irritabile, la dispepsia funzionale, la malattia da reflusso gastroesofageo; delle sindromi da malassorbimento intestinale, in particolare la malattia celiaca, il morbo di Whipple e l’intolleranza al lattosio e le loro complicanze sistemiche, quali l’osteoporosi. Ha svolto un periodo di formazione all’estero presso il Centre for Gastroenterological Research dell’Università di Leuven, diretto dal prof. Jan Tack, occupandosi dello studio della motilità tonica e fasica dell’apparato gastrointestinale e dei meccanismi di regolazione. E’ reviewer delle principali riviste di gastroenterologia. L’attività scientifica ha prodotto numerose pubblicazioni su riviste internazionali raggiungendo un Impact Factor cumulativo di 300

Il prof. Di Stefano collabora con il nostro Istituto di Medicina Biologica

 


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